Il Grillo-day e lo stato nascente

beppe-grilloCome è accaduto solo un’altra volta nella storia della Repubblica, e cioè nel 1994, le elezioni del 24-25 febbraio hanno rivoluzionato la politica in Italia. Sono state un G-day (G per Grillo, naturalmente) che ci ha proiettato di nuovo in una condizione di “stato nascente.” Si tratta di capire che senso ha e dove potrebbe portarci.

Allora, nel 1994, emerse Forza Italia, che con otto milioni di voti ottenne il 21% dei consensi. Nacque la Seconda Repubblica, dominata dalla figura di Silvio Berlusconi e dalla (in)cultura del berlusconismo: l’imprenditorialità in politica intesa come dominio di un padrone solo al comando, il mito del “fare” ridotto ad arrembante corsa a uno “svelto” arricchimento, la seduzione di un linguaggio pubblicitario impiegato per manipolare con le televisioni gli appetiti di massa, il liberismo antistatalista declinato come appropriazione dei beni pubblici per il soddisfacimento di privilegi privati.

Una generazione al tramonto

Era un messaggio tagliato su misura per i sogni di individualistica affermazione dilaganti tra i “baby boomers”:  una vasta generazione cresciuta in un mondo di “aspettative crescenti” e di inibizioni decrescenti, disposta sin dai primi turbamenti ormonali a rovesciare la vecchia cultura del dovere in una cultura di soli diritti in espansione. Sessantottini che poco più che adolescenti avevano fatto un primo tentativo di dissipare il benessere duramente conquistato dai padri, invocando “l’immaginazione al potere” per poi finire nel cul de sac degli “anni di piombo”; trentenni e quarantenni che nella decade del craxismo rampante avevano dato sfogo all’arrivismo scalando le gerarchie sociali, lesti nel partecipare all’effettivo sperpero della ricchezza dei padri e a ipotecare quella dei figli in una devastante accumulazione di debito pubblico; quarantenni e cinquantenni che all’arrivo di Berlusconi erano “maturi” per saltare sul suo carro, sicuri delle proprie convenienze, bramosi di invadere i posti di comando per una conclusiva trasformazione dello Stato in “roba” privata.

Quella generazione narcisista e dissipatrice, che aveva ereditato tutto e ora lascia solo debiti e impegni di austerity in carico ad altri, è al tramonto. Sono i sessantenni e ultrasessantenni che in questi anni hanno tenuto strette  le redini del potere, senza uno straccio di progetto e con un unico obiettivo: restare al timone per appagare sé stessi, a dispetto dell’evidenza che la barca stava affondando.

Sono gli stessi che, in un disperato colpo di coda, hanno cercato di raccontarci, in questi giorni, come i vincitori delle elezioni sarebbero due: Grillo e Berlusconi.

Un solo vincitore, molti perdenti

Non è così. Il sommovimento del voto del 24-25 febbraio 2013 è altrettanto profondo e traumatico quanto quello del 27-28 marzo 1994. Berlusconi e l’alleato leghista decapitato dell’insostituibile Bossi, hanno perso oltre sette milioni di voti, ossia più del 40% dei consensi raccolti nelle precedenti elezioni.

Sarebbe una vittoria, questa? Ma davvero conta qualcosa che, in campagna elettorale, Berlusconi abbia risalito, come sempre, la china virtuale dei sondaggi grazie al “massaggio” delle sue televisioni? Quel che conta, piuttosto, è che alla fine sia stato comunque abbandonato da quasi la metà del suo elettorato. Chi parla di vittoria lo fa interessatamente per tenere inchiodato il Paese nel passato. Ma si tratta di una sciocchezza che ignora l’evidente valenza storica del passaggio che si è appena consumato.

Beppe Grillo e il Movimento 5 Stelle conquistano dal nulla quasi nove milioni di voti, il 25,6% del totale – assai più di quanti ne vinse Berlusconi nel ’94 con tutto il dispiegamento dei suoi soldi, delle sue televisioni, e dei suoi agganci con il craxismo. Allora si gridò al miracolo, e all’inizio di una nuova epoca. A maggior ragione, oggi non è possibile liquidare la scelta di un quarto degli italiani come un passeggero mal di pancia, un’effimera protesta. Non siamo in presenza del “qualunquismo” di un Guglielmo Giannini, che tra il 1946 e il 1948 fece capolino nella storia politica del nostro paese, guadagnando un 5% dei consensi  per poi rapidamente dissolversi. Non siamo neppure in presenza di un Paul Poujade, che tra il 1953 e il 1958 arrivò a raccogliere l’11% del voto francese per poi accompagnare il poujadismo a una subitanea scomparsa con l’avvento di De Gaulle e della Quinta Repubblica.

Non ci sono clown, ma il re è nudo

Un quarto dei voti, raccolti dal basso dopo un ventennale lavoro di “predicazione” di teatro in teatro e sul Web, lontano dalle Tv, con penuria di mezzi, in totale estraneità e anzi in lotta isolata contro l’establishment politico-economico-finanziario, costituiscono un “cambio di paradigma”.  Svilirli e ridurli a irresponsabile invaghimento per un “clown”, come molti hanno rabbiosamente detto in Italia e in Germania, e come ha persino scritto l’Economist – facendo torto alla sua intelligenza – è un’incredibile sciocchezza.

Grillo non è un “clown”. E’ stato fino agli anni ’80 un grande comico, un vero talento in un’arte difficile. Dagli anni ’90 si è via via trasformato in una sorta di “guru”, una figura solitaria e profetica che denunciava – in forme apocalittiche ma anche concrete, come nel caso Parmalat – la crisi di civiltà che si è poi abbattuta su di noi. Ma anche annunciava tempi nuovi e un credo laico: la fede nella democrazia diretta, la necessità della transizione verso un’economia dematerializzata e sostenibile, l’anelito a un’umanità più solidale, emotivamente partecipe, meno consumista ma più  soddisfatta di sé come risposta al deserto che ci circonda. Tra le macerie, la sua voce evocava un “nuovo Rinascimento”.

Sta di fatto che oggi, con un quarto dei voti raccolti con risorse finanziarie minime rispetto agli enormi investimenti delle altre forze politiche, Grillo stravolge l’ordine esistente, rivelando la scandalosa nudità del re.

Protagonisti del declino  

In prima fila, tra gli sconfitti, sono dunque Berlusconi e la Lega, diventati forze marginali: spente e in terminale declino, travolte da successive ondate di corruzione, di pubblico disprezzo e dall’esaurimento della capacità di attrazione culturale prima ancora che politica, proprio come accadde alla Democrazia Cristiana tra il 1992 e il 1994.

Ma pesantemente battuta è anche la coalizione guidata da Pierluigi Bersani, lo “smacchiatore di giaguari”, che perde quasi un elettore su tre. Non è lo sfascio leghista, non è il collasso berlusconiano, ma si tratta comunque di un colpo tremendo: una presa di distanza dal processo di snaturamento di una sinistra talmente balbettante, talmente insicura della propria identità da ridursi troppo spesso a puntello della destra, sia berlusconiana che eurocratica e montiana.

Nel ventennio berlusconiano, la sinistra ha guidato o sostenuto governi per ben nove anni. E’ stata protagonista negativa del declino di un Paese che, oltre a impoverirsi, è divenuto più diseguale, meno democratico, sempre più insopportabilmente infeudato nelle sue caste e discriminatorio nella separazione tra privilegiati “insider” e “outsider” alla deriva. Si è accontentata, la sinistra, di contrattare la sua appartenenza a una élite che diventava sempre più  estranea e invisa a una parte crescente di italiani, ritrovatisi abbandonati nella marginalità. Anziché “smacchiare il giaguaro”, ha finito per ripulire sé stessa dai suoi segni distintivi, dai suoi valori fondanti.

Tre opzioni per la sinistra

Colpita, la sinistra non è per ora affondata. Resta la forza di maggioranza relativa e l’unica indispensabile per la formazione del nuovo governo: quella a cui toccherà la prima mossa. A tenerla sopra la linea di galleggiamento potrebbe contribuire il profondo rinnovamento della sua rappresentanza parlamentare, selezionata attraverso le primarie in un felice soprassalto di democrazia interna: molte donne, molti giovani, molte facce nuove non compromesse con le sciagurate scelte del recente passato.

Questa sinistra, menomata ma ancora in vita, dovrà scegliere. Le opzioni sono tre, di difficoltà crescente e con ritorni potenziali direttamente proporzionali alla difficoltà, in ossequio al detto inglese “no pain no gain” (nessun guadagno senza sacrificio).

Può scegliere – la scelta più facile – di affondare nelle lotte di potere e nei regolamenti di conti interni. Lacerata e impotente, finirebbe per passare la mano a un qualche governo “tecnico” di brevissimo respiro e per condannarsi a una più cocente e definitiva sconfitta alle prossime elezioni.

Può scegliere – scelta di difficoltà media – di fare un “governissimo” con Monti e Berlusconi. Si tratterebbe di sacrificare una volta di più la propria vocazione riformista e le indicazioni dell’elettorato in nome di una presunta “stabilità” destinata a tralignare in un fatale rigor mortis.

L’immediata gratificazione verrebbe dal consenso dell’establishment tanto nazionale che europeo, e dal riaccendersi del coro di rassicuranti “esperti” pronti a prevedere che la ripresa economica – dopo i sacrifici fatti e una volta garantita la stabilità – sarebbe, di nuovo e come sempre, proprio dietro l’angolo.

Cullandosi in queste illusioni, un paralizzante “governissimo” potrebbe forse durare per un po’, di fatto posticipando la fine già segnata della Seconda Repubblica. Gli esiti – penso – sarebbero devastanti. Sia perché il gioco dei veti e delle convenienze reciproche produrrebbe solo l’imputridimento del sistema di caste e di privilegi, che impediscono crescita e sviluppo – la vera, gravissima malattia italiana. E sia perché ne uscirebbe rafforzato lo status quo delle politiche europee di austerity – ricetta sicura per il collasso.

C’è infine una terza scelta che la sinistra può fare: la più rischiosa, incerta e difficile. La sinistra può imboccare l’unica strada non ancora tracciata, anzi tutta da inventare. Può scommettere sulla propria capacità di proporre un New Deal di riforme vere per scuotere l’Italia dal suo coma. Può puntare sul cambiamento all’insegna di pochi, semplici valori di sinistra: più democrazia, più eguaglianza, più lavoro e investimenti nel capitale umano, più onestà e trasparenza. Può scommettere sulla natura riformista e non massimalista del Movimento di Grillo, ingaggiando attorno a quegli stessi valori, che il grillismo condivide, una sfida per la realizzazione di pochi, chiari, qualificanti punti programmatici. Può infine scommettere sulla propria capacità di contrattare nuove, più ragionevoli condizioni per la continua appartenenza all’euro e all’Unione Europea: meno cieca austerity, più solidarietà e sviluppo.

Meno austerity, più sviluppo

Un’arma negoziale potente, nei confronti dell’Europa, l’Italia ce l’ha, ed è il suo enorme debito pubblico – sufficiente, se gestito irresponsabilmente, a travolgere non solo il nostro Paese ma l’intero progetto dell’euro. Come l’esperienza dell’ultimo paio d’anni ha reso evidente, l’austerity ossessiva è controproducente ai fini della riduzione del debito, è un ostacolo alle riforme strutturali, è inutile nel prevenire le crisi di panico sui mercati, contro le quali si è invece dimostrata decisiva la disponibilità della Bce, con Draghi alla guida, a intervenire come prestatore di ultima istanza.

Restano da convincere i tedeschi, sicuri di sé a tal punto da ignorare troppi dati di realtà, che li smentiscono. Ma l’ascesa del Movimento di Grillo e la debacle di Monti sono un ulteriore, pesante monito per Berlino. Insistere, da parte tedesca, nell’arrogante inflessibilità di chi si crede nel giusto, senza esserlo, può solo alimentare resistenze e divisioni.

Una formula politica che consenta al Pd di dar vita a un governo di minoranza impegnato a confrontarsi sulle riforme col M5S presenterebbe fragilità evidenti. Il Pd rischia di essere travolto dalle tensioni al suo interno e dalle difficoltà di una sfida del tutto nuova e imprevista. Il M5S è un movimento neonato che ha scarsissima esperienza amministrativa e istituzionale. E’ poco strutturato, non ha ancora una vera classe dirigente, dipende eccessivamente dal suo “guru” fondatore. L’establishment, nel mirino delle riforme, potrebbe giocare su queste debolezze per interferire pesantemente con la volontà del Parlamento. I rischi di fallimento, com’è evidente, sono elevati.

Ma due debolezze che collaborano potrebbero anche scoprirsi capaci di valorizzare i rispettivi punti di forza: il radicamento antico assieme alla rete di competenze e di esperienze che caratterizzano il Pd e il suo bacino elettorale; la novità generazionale, l’entusiasmo concreto e la sete di innovazioni positive che innervano il movimento grillino.

Decisivo è che i primi passi siano nella giusta direzione. In ultima istanza, il problema più grosso, in Italia, non è quello del consolidamento fiscale e la risposta alla crisi non può essere incentrata sull’austerity. E’ quel che Monti non ha capito, finendo per essere giustamente rifiutato come la medicina sbagliata.

Come osservava in questi giorni Jim O’Neill, presidente di Goldman Sachs Asset Management, l’Italia è, con la Finlandia, il solo paese europeo ad avere dei conti pubblici che, corretti per il ciclo, sono in attivo (vedi tabella sotto)

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Quel che serve all’Italia è una ricetta per tornare a crescere impiegando utilmente tutte le sue troppe risorse male o per niente utilizzate. Alla ripresa della domanda interna si accompagnerebbe un processo di ricostituzione del capitale umano e sociale del Paese oggi degradato dalla marginalizzazione di troppi cittadini, a partire dai più giovani e innovativi. Si tratta di superare il diffuso senso di sfiducia e di smontare, pezzo a pezzo, l’enorme blocco di rigidità, distorsioni, rendite di posizione, inefficienze, trame corruttive che tolgono ossigeno all’economia.

“Ci vuole qualche grosso cambiamento”, ha scritto O’Neill in una sua nota settimanale, descrivendo come “eccitante” e promettente l’affermazione del Movimento di Grillo. Detto dall’interno di Goldman Sachs, è un punto di vista che può stupire, ma che nasce da una lettura attenta e non ideologica della realtà.

Per il Pd soprattutto, ma anche per il Movimento 5 Stelle, rinunciare a ingaggiare una intelligente, generosa, collaborativa competizione sul terreno delle riforme vorrebbe dire restare sordi alla volontà espressa, a chiara maggioranza, dagli italiani. Vorrebbe dire fallire in partenza, senza neppure averci provato. Si tratterebbe di un fallimento imperdonabile e forse anche irreparabile.

4 commenti su “Il Grillo-day e lo stato nascente

  1. ihavenodream ha detto:

    Mah, mi sembra un post un tantino “di parte” diciamo così. Come si fa a dire che il centro destra ha perso le elezioni? La coalizione PD+SEL era accreditata di prendere la maggioranza assoluta, ha vinto alla camera con uno scarto di 100000 voti (solo le schede nulle sono state 800000 e bisognerebbe ricontare tutto se fossimo un paese serio), ha preso il 55% dei deputati con una legge anticostituzionale che non ha voluto cambiare (non voleve perdere il premio di maggioranza si ricorda?). C’erano 4 regioni in bilico, il centrodestra ha vinto tutte e 4 e in più ha preso puglia (dove Vendola ha preso una sonora batosta) e calabria. Monti invece del 15% ha preso il 10% nonostante avesse (lui si) tutti contro, ha il suo governo in carica a tempo indeterminato, e’ il politico di gran lunga più accreditato all’estero (cosa non di poco conto, se i nostri tassi non sono schizzati alle stelle in questa situazione, lo dobbiamo a Monti che è ancora in sella!). Grillo non si puo’ certo dire che ha perso, quindi gli unici che han perso sono il PD, Sel e soprattutto Vendola e Bersani. Se il centrosinistra non ha vinto neanche ora, significa che non ha la maggioranza nel paese e non la avra’ mai, questo è il dato politico. L’altro dato è che se Bersani si fosse ritirato, oggi avremmo una larga coalizione guidata da Renzi (Berlusconi e Monti si sarebbero fatti da parte). Ora il morto che parla e tutti i suoi zombi vaneggiano di un accordo con Grillo, una roba inutile e stupida, che consegnerebbe il paese a Berlusconi al prossimo giro! Sempre gli zombi stanno dimostrando un’ignoranza politico-istituzionale colossale, pretendono che il capo dello stato dia a loro, in mancanza di un accordo, un mandato esplorativo in parlamento, ma di che parlano? non hanno la maggioranza e l’Italia non si puo’ certo permettere la figura di uno che implora la fiducia in parlamento a due clown. Questa non è una crisi di governo, il governo l’Italia ce l’ha come ha ricordato il capo dello stato. Me lo vengano a dire in parlamento? Ma di che parla? devono tutti parlare col capo dello stato non in parlamento! Poi dice: ognuno si prenderà le proprie responsabilità; ecco cominci lui: dimettendosi e lasciando la palla a qualche altro!

    • Gentile Ihavenodream,

      mi limiterò a poche osservazioni.

      1) Tutti i confronti che lei fa per attribuire titoli di vittoria e di sconfitta, e dunque arrivare a cogliere il senso del voto, sono svolti rispetto alle “attese” della vigilia. Ma le pare convincente? Abbiamo a che fare con un’elezione in cui ci sono stati spostamenti così massicci del consenso quali si sono avuti – ripeto – solo un’altra volta nella storia quasi settantennale della Repubblica. E lei questa mezza rivoluzione mi propone di decifrarla dal “buco della serratura”, spiando le oscillazioni rispetto ai sondaggi di qualche settimana fa? Scusi sa, ma è l’equivalente di uno che stia a osservare il dito quando gli viene indicata la luna.

      I confronti io li ho fatti col voto delle precedenti politiche del 2008, perché questo ci dà una misura reale, di ampio respiro e nella pienezza della sua portata, di quanto l’Italia è cambiata in questi anni. Il risultato – obiettivo, numerico – è che Lega (-60%) e Berlusconi (-40%) sono i primi, più grandi perdenti. Altri dettagli, che io nel mio pezzo ho trascurato, lo confermano, come ad esempio il fatto che l’elettorato di destra è molto concentrato tra gli ultrasessantenni e non fa più alcuna presa tra i giovani, dove il consenso per Berlusconi si ferma attorno al 10%. Dopodiché, come ho scritto, perdono tutti gli altri perché c’è un solo, straordinario vincitore – il Movimento 5 Stelle – che calamita consensi da tutto l’arco delle forze politiche.

      2) Lei parla di clown, di vaneggiamenti, di “roba inutile e stupida” riferendosi ai (difficili) abboccamenti tra Pd e M5S. Per carità, non è un linguaggio elegante né granché argomentato, ma sono pensieri che è liberissimo di esprimere. Io la penso diversamente e nel mio articolo ho cercato di spiegare il perché. Su una cosa, però, sarebbe utile che anche lei concordasse: coalizione di sinistra e M5S, sommati assieme, hanno raccolto il 55% dei voti e assai di più in termini di seggi. Non le piacerà, ma è così. Forse sono voti e seggi che non arriveranno mai a sommarsi. Si vedrà. Ma che cerchino di parlarsi – avendo tra l’altro diversi punti programmatici in comune e valori condivisi – non è, se permette, né inutile né stupido. Inutile e stupido sarebbe, per fare un esempio, che, ai fini della formazione del governo, un Giannino avviasse colloqui con un Monti, o un Maroni li avviasse con Bossi e col Partito dei Pensionati. Ma se Bersani, leader della coalizione che ha la maggioranza relativa, avvicina una forza ritenuta compatibile e con cui si possono ottenere tutti i voti che servono per governare, beh questa è democrazia. Non è, insomma, “robaccia”.

      3) Infine, mi permetta di darle una delusione relativamente a Monti. Monti con gli spread e con la fiducia internazionale c’entra ben poco. Certo, quel che lei ripete è quanto hanno raccontato molti media nazionali, in ossequio agli interessi proprietari, assai concentrati, della nostra editoria. Ma non è vero. Gliene darò prova in un articolo che conto di pubblicare nei prossimi giorni. In sostanza, un’analisi dell’andamento degli spread nella zona euro – fatta da economisti indipendenti e di grande autorevolezza – dimostra come la discesa, dopo la crisi di panico del 2011, è interamente spiegata dagli interventi della Bce, prima a sostegno delle banche (con la long-term refinancing operation, o LTRO) e poi a sostegno dei debiti sovrani (con le outright monetary transactions, o OMT). D’altra parte, i risultati del governo Monti sono stati così deprimenti – con riforme strutturali abbozzate ma non condotte in porto, una fiducia di imprese e consumatori ai minimi termini e una disoccupazione in forte crescita, un Pil crollato del 2,4% e un debito/Pil che in conseguenza è schizzato in su di oltre 5 punti – per cui non avrebbe alcun senso attribuirgli il merito di una riconquistata fiducia dei mercati. I mercati, per carità, sanno essere irrazionali. Ma non lo sono stati in questo caso. La verità è che, nonostante i fallimenti di Monti, la Bce – sotto la guida di Draghi – ha saputo contenere, almeno per ora, i timori di una deflagrazione dell’euro. Ed è per questo che il nostro spread, come quello degli altri paesi periferici, è sceso. Chi ne ha attribuito il merito a Monti (a partire da Monti stesso), ha fatto un’operazione politica, che peraltro è servita a ben poco. Gli elettori italiani, in stragrande maggioranza, non ci sono cascati.

      Cordiali saluti,

      Giuseppe B.

      • ihavenodream ha detto:

        Certo che “tecnicamente” gran parte del merito di questo livello ragionevole di spread è da attribuire alla BCE, ma il punto è che la BCE ha potuto agire così perchè c’era Monti in Italia a capo dell’esecutivo, e di Monti i nostri creditori internazionali (a torto o a ragione) si fidano! Se ci fosse stato Berlusconi o Grillo o Bersani-Vendola diciamo Berdola o una qualsiasi combinazione di questi personaggi la BCE non avrebbe mai comprato i nostri titoli di stato. Continuo a ritenere ridicola l’ipotesi di un governicchio Berdola-Grillo, ma quel che più conta è che la ritengono ridicola all’estero e fino a quando noi italiani non saremo autosufficienti per energia e materie prime e non avremo ridotto al 5-10% l’esposizione del nostro debito verso l’estero, che ci piaccia o no, non possiamo scegliere chi ci piace per governarci, senza il benestare dei nostri creditori che ci possono “tagliare gli alimenti” quando e come vogliono. Sa cosa succederebbe se passasse il governo Berdola-Grillo? che lo spread salirebbe presto a 450 punti quindi scatterebbe l’OMT e il governo dovrebbe buttare a mare il suo programma e mettersi al lavoro sui punti decisi dalla Troika. La verità è che Berdola è alla frutta, Vendola ha persino rinunciato ad entrare in parlamento e sta litigando in Puglia col PD per la nuova giunta regionale, tra un po’ su tutto il PD passerà un treno merci di nome Matteo Renzi!

  2. Ihavenodream,

    lei parte dal pregiudizio che, nello sfascio dell’euro, i creditori (cioè la Germania) avrebbero ragione. Sarebbero la parte virtuosa che si contrappone a quella viziosa degli incalliti debitori della periferia mediterranea.

    Il problema è che questo suo pregiudizio è completamente sbagliato.

    La Germania, con l’aiuto della Bce, ha realizzato, con l’avvento dell’euro, una politica che una volta si sarebbe definita tipicamente “imperialista”. Aveva il problema pregresso di assorbire la Germania dell’Est e un’elevata disoccupazione. Ha cercato di risolverlo con un patto interno tra governo, imprenditori e sindacati che puntava a congelare i salari ben al di sotto degli aumenti di produttività, in modo da reprimere i consumi interni, sovvenzionare i settori produttivi orientati all’export e conquistare i mercati esteri (Europei in primis) in modo da generare surplus e creare occupazione in patria.

    L’altra faccia della generazione di enormi avanzi della bilancia dei conti correnti è stata l’esportazione di capitali verso la periferia europea, intermediata dalle grandi banche che, con l’euro, venivano pure incoraggiate ad assumere dimensioni europee e globali (Deutsche Bank in primis).

    Nella periferia europea accadeva il contrario: ai crescenti deficit commerciali, che compensavano l’aggressiva ricerca tedesca dell’accumulazione di surplus, si accompagnava una massiccia importazione di capitali (per lo più tedeschi) che, sfruttando sia un euforico processo di convergenza che la politica di bassi tassi d’interesse imposta dalla Bce (per favorire la Germania), cominciavano a gonfiare degli enormi boom nel settore delle costruzioni ma anche dei consumi.

    Se lo ricorda? Per diversi anni si parlò di miracolo economico in Spagna, Irlanda, Grecia. Tutti esaltavano i “successi” dell’integrazione europea. Solo qualcuno si arrischiava a esprimere timori – sottovoce – per il surriscaldamento di quelle economie. La Bce, di fatto, non se ne curava, mantenendo bassi i tassi d’interesse. In realtà, tutta la periferia europea andava accumulando debiti enormi (nel settore privato) nei confronti di una Germania, che riciclava i suoi giganteschi surplus commerciali in un’attività di credito folle e predatorio, senza alcun riguardo per l’effettiva redditività degli impieghi nel medio-lungo periodo (a un livello di tassi normalizzato) o la capacità dei debitori di pagare.

    Quando è scoppiata la crisi, la Germania non solo ha preteso di far rientrare i suoi capitali privati, minimizzando le perdite grazie all’intervento della finanza pubblica, ma ha anche reclamato il diritto – contrabbandato come “virtù” – di continuare a invadere il resto d’Europa con le sue merci, sostenute non da una superiore produttività del “sistema tedesco” (alquanto inefficiente nel settore dei servizi) bensì da un set di politiche mercantilistiche (di stampo “cinese”) tutte centrate sulla repressione dei salari e dei consumi interni.

    Il risultato qual è stato, nell’ultimo paio d’anni? La Germania ha mantenuto i suoi enormi surplus commerciali, ma è diventata sempre più indisponibile a esportare i suoi capitali e a estendere altro credito (ormai non più privato, ma pubblico). Infine ha preteso (sostenuta da Bce e Ue) che la soluzione agli squilibri che destabilizzavano l’euro fosse tutta a carico dei paesi in deficit della periferia europea, sotto forma di austerity e svalutazione interna.

    Si tratta di una prescrizione demenziale, iniqua, e destinata a distruggere l’Europa. Le svalutazioni interne non hanno mai funzionato nella storia, creano solo interminabili conflitti tra corporazioni e una lotta di tutti contro tutti in cui alla fine gran parte dei costi di un aggiustamento comunque insufficiente viene scaricata sui ceti meno protetti. L’austerity non fa altro che distruggere il potenziale di crescita e aumentare l’onere del debito, generando un’opposizione politica sempre più estremistica.

    In definitiva, la cecità e l’egoismo tedeschi, uniti ai molti errori pregressi dei paesi periferici (che avrebbero dovuto opporsi ben prima al montare degli squilibri all’interno della zona dell’euro e forse opporsi sin dall’inizio a un euro senza unione fiscale) non fanno che spingere verso il sempre più inevitabile esito di una serie di default sovrani e di svalutazioni che potrebbero portare o a una distruzione totale del progetto euro, o alla sopravvivenza di un “nocciolino duro” in una mare comunque di recriminazioni politiche e di tensioni che spero solo non degenerino nel furore di una guerra.

    L’alternativa sana e intelligente esiste. Ma richiede un cambio di rotta completo da parte della Germania, di cui sinceramente non vedo le premesse. La Germania dovrebbe adottare politiche molto espansive, accettare di compensare i passati surplus commerciali con una prolungata fase di forte stimolo alla domanda interna e conseguenti deficit commerciali, che consentano ai paesi della periferia europea di transitare a loro volta dal deficit al surplus, e così accumulare le risorse per ripagare i loro debiti. Il costo, per la Germania, sarebbe quello di una crescita relativamente più bassa e di una temporanea accumulazione di debito. La Germania, che gode di piena occupazione e di un debito tra i più bassi nel mondo occidentale, si può tranquillamente addossare sia l’uno che l’altro onere. Ho però l’impressione che continuerà a rifiutarli, perché – con infinita arroganza – si ritiene nel giusto e pensa che siano gli altri paesi a doversi adeguare alle sue preferenze. Il risultato – temo – sarà il disordinato collasso dell’euro, che finirà per colpire, pesantemente, l’Europa intera – Germania inclusa.

    Cordiali saluti,

    Giuseppe B.

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