Marchionne, il postdemocratico incompreso

marchionne_postdemocraticoNessuno, di sicuro, attribuirà mai il soprannome di “le Florentin” a Sergio Marchionne. La machiavellica astuzia nell’arte della politica – che valse il nomignolo a François Mitterrand – non fa proprio per lui.

Eppure, nelle piccate, troppo esplicite e poco accorte insolenze rivolte a Matteo Renzi e alla città di Firenze, ci sono – mi pare – delle sottigliezze e una duplicità, per quanto involontarie, che rischiano di fare di Marchionne comunque un incompreso. Dobbiamo allora sforzarci di capirlo.

Quando, dopo aver definito Renzi “il sindaco di una piccola, povera città”, ha rettificato le sue parole, dicendo che erano state “estratte fuori dal contesto” e non andavano lette “come un giudizio sul valore di Firenze”, il Ceo di Fiat ha detto – ne sono convinto – la verità. D’altra parte, neanche il peggior megalomane attaccherebbe Firenze.

Hitler, per citare un’esempio, l’adorava. La volle visitare in più occasioni. E nell’agosto del 1944, quando i nazisti fecero saltare i ponti sull’Arno per rallentare l’avanzata degli Alleati, ponte Vecchio fu risparmiato.

Che senso avrebbe avuto, per Marchionne, abbattere un simbolo di civiltà che persino il nazismo volle preservare?

Si tratta, allora, di ricostruire il contesto. E Marchionne, l’incompreso, ha detto a mio avviso quanto basta per poter essere inteso.

Due incongruità rivelatrici

Il capo della Fiat ce l’aveva non con Firenze ma con Renzi – questo è chiaro. E ce l’aveva perché Renzi si è permesso di dichiarare che la Fiat ha “preso in giro” lavoratori e politici con promesse di investimenti, che ora non farà. Fin qui, niente di sorprendente: normale dialettica tra il boss di una multinazionale, che pensa solo ai profitti aziendali, e un politico, che si cura degli interessi di una collettività.

Per insultare Renzi, Marchionne è però ricorso a uno strano confronto  – strano e sproporzionato quasi quanto l’offesa rivolta a tutta una città con l’intenzione di colpirne solo il sindaco. “E’ la brutta copia di Obama – ha attaccato – ma pensa di essere Obama”.

Ora, che c’entra il presidente Usa? Con le accuse di Renzi alla Fiat non c’entra nulla. Rovesciando le parti, è come se Renzi, per criticare i mancati investimenti di Marchionne, gli avesse imputato di atteggiarsi da Padreterno, ma di non esserlo. Ovvio che non lo è. Il Padreterno gli investimenti li farebbe – e senza prendere in giro i politici o ricattare gli operai. Ma è un raffronto da fare? Merita parlarne?

Due incongruità in un paio di frasi – Renzi “brutta copia di Obama”, Renzi “sindaco di una piccola e povera citta” – pronunciate in un momento d’ira ma da uno, come Marchionne, intelligente e solitamente capace di autocontrollo, sono più di un indizio che qualcosa, negli ordinati cablaggi del suo cervello, l’altro giorno a Bruxelles è andato in corto circuito.

Non sono uno psichiatra e il capo della Fiat non è un mio paziente. Ma un’intuizione su quel che non ha funzionato, ce l’ho.

Psicopatologia del Marchionne quotidiano

Mi sembra evidente che, stanco, irato o forse distratto, Marchionne ha parlato in un momento di rilassamento dei freni inibitori, lasciando emergere un materiale psichico molteplice e in parte inconscio. Ma, soprattutto, non del tutto comunicabile una volta che si è presentato alla coscienza.

Si tratta di quella condizione – comune a tutti – in cui prendono forma i lapsus linguae e che Sigmund Freud analizzò in Psicopatologia della vita quotidiana oltre un secolo fa. In tale stato, le parole vengono trasposte, anticipate, posposte, contaminate, sostituite, dando vita a quelle costruzioni “parafasiche”, che si ritrovano, in forme ben più acute e patologiche, nei malati di Alzheimer o nei colpiti da ictus cerebrale (un Bossi, per dare l’idea).

Un semplice, classico esempio, che Freud riporta, è quello di chi dice “la Milo di Venere” anziché “la Venere di Milo”.  Qualcosa di simile deve essere accaduto a Marchionne, il quale, volendo sminuire Renzi fino al limite dell’offesa, non intendeva dargli del “sindaco di una piccola, povera città”, quanto piuttosto del piccolo, povero sindaco di una città”. Quale città, per Marchionne, che vive perennemente in giro per il mondo, trascorrendo più tempo nell’alto dei cieli che qui in terra, era indifferente.

D’altra parte, se quella frase non gli è uscita correttamente di bocca, è segno che in extremis è intervenuta una censura. Perché? Penso che in quello sfogo genuino c’era troppo disprezzo sia della politica, per di più in una delle sue poche vesti apprezzate dagli italiani – e cioè la figura del sindaco – sia della socialità locale e cittadina, una dimensione di vita tradizionalmente amata in Italia.

Accortosi in ritardo di essersi spinto giù per una china eccessiva e inopportuna, Marchionne – di nuovo a terra e  in controllo della sua Ferrari – ha pigiato i freni al carbonio, riuscendo però solo a far slittare i dispregiativi “piccolo e povero” in fondo alla frase, trasformando così l’offesa a Renzi in un’offesa a Fi-renze. Un tamponamento peggiore di quello causato da Schumi nel Gran Premio di Singapore.

Marchionne e la postdemocrazia

Questa mia opinabile interpretazione spiegherebbe, d’altra parte, anche il contestuale e in apparenza incongruo confronto con Obama. Nel dileggio di Renzi in quanto politico “piccolo e povero”, rappresentante di una dimensione niente più che “locale”, Marchionne deve essere corso, per istintiva contrapposizione, al presidente americano in quanto simbolo di quella politica “grande, ricca e globale” con cui soltanto è disposto a incontrarsi e a scendere a patti.

Le due frasi di Marchionne – a prima vista poco sensate – di senso, dunque, ne hanno molto. Al di là della non voluta offesa a Firenze, e della voluta ma contingente ritorsione contro Renzi, ci rivelano in fin dei conti la prospettiva di un Ceo sul mondo in cui viviamo. E’ un mondo di “postdemocrazia” – come l’ha chiamata Colin Crouch – in cui, in società sempre più diseguali, la politica in quanto rappresentanza di interessi generali viene assalita da prepotenti interessi economici, e al “tramonto della democrazia” si accompagna  l’aggressiva ascesa di una nuova classe dominante:  “l’élite delle multinazionali”.

Nel disprezzo per il “piccolo e povero” sindaco di una città, ossia di una comunità locale, Marchionne ci ha rivelato – non del tutto volontariamente, perché sa che sarebbe stato più astuto non farlo – chi è che è autorizzato a interloquire con lui: solo i suoi pari, l’aristocrazia dei “grandi, ricchi e globali”. Padroni che, poco consapevoli dei propri limiti, spesso li oltrepassano.

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