L’euro, né moneta né unica né europea

DraghiNon vorrei esagerare a tal punto da descrivere l’euro come la cieca, fatale svolta storica che fa da innesco a un “Quarto Reich” germanico. La tentazione però c’è – ed è comprensibile se uno considera una serie di inquietanti circostanze.

Penso, ad esempio, ai benefici che la Germania ha tratto sinora dall’euro, speculari alle devastazioni subite da vari paesi periferici e del sud Europa; al ruolo di indiscussa leadership che nella nascita e gestione dell’euro hanno avuto la Germania, una commissione europea a guida ideologica tedesca, e una banca centrale europea d’impronta tedesca e con sede a Francoforte; alla tendenza secolare dei Reich germanici a virare verso una qualche forma di aggressivo espansionismo; e infine alla nozione di imperialismo, così definita da Wikipedia: “la tendenza di una nazione ad imporre il suo dominio economico e ad influenzare la politica interna di altri paesi con l’obiettivo di avviare la costruzione di imponenti imperi economici”.

Se si sta alla definizione, e si considerano i fatti, è difficile non intravedere nella storia recente dell’euro più di qualche, “postmoderna”, venatura di imperialismo. Dirlo non è gradevole, non è “politically correct”, non è per niente rassicurante. Ma la somma delle politiche mercantilistiche tedesche e delle politiche di austerity imposte ai paesi periferici, in risposta alla crisi, a questo stanno portando: a un euro come strumento di dominio economico della parte più forte d’Europa su quella più debole.

Ritorno al buon senso

Naturalmente, non è detta l’ultima parola. L’autoritario dogmatismo con cui è stata gestita la crisi greca è destinato a incontrare maggiori resistenze a mano a mano che le stesse politiche produrranno gli stessi, seriali fallimenti in paesi ben più grandi della Grecia, come la Spagna e l’Italia. Inoltre, una ribellione alla deriva autoritaria potrebbe venire non solo da chi è messo all’angolo e stretto alle corde, ma anche dagli elettori in altre parti d’Europa.

Le attuali politiche di austerity sono così ottuse, così sterili e sbagliate da avvantaggiare solo ristrette élite, persino in Germania. C’è spazio per ripensamenti e prese di coscienza – e magari anche per una riscoperta del sagace consiglio che John Maynard Keynes offrì al presidente americano Roosevelt nel momento più buio della Grande Crisi, nel 1933: “Prendetevi cura della disoccupazione e il bilancio pubblico prenderà cura di se stesso”.

Depotenziata dalle scelte di elettori di nuovo capaci – dopo l’iniziale disorientamento – di giudizi di buon senso, la carica di supponente aggressività che oggi impregna la gestione dell’euro potrebbe dunque attenuarsi. Ci sarebbe spazio per tornare a considerare le finalità del progetto europeo a mente fredda e cuore caldo: sin dalle origini, l’Europa unita è stata una visione politica – di civiltà condivisa e solidale.

Riconoscere velleitarismi e fallimenti

Quanto all’imperialismo germanico, può essere forse di qualche conforto il considerare che ne sono esistite diverse varianti: da quella sommamente distruttiva del Terzo Reich a quella alquanto velleitaria del Primo Reich, ossia del Sacro Romano Impero, rimasto inutilmente in vita dall’anno 962 al 1806, quando con un tratto di penna Napoleone lo cancellò. Ma già mezzo secolo prima la vacuità di quell’irrealistico progetto di innestare sulla passata grandezza di Roma un sogno di germanica supremazia era stata messa alla berlina dalla pungente ironia di Voltaire. Fu lui ad osservare che il Sacro Romano Impero non fu mai “né sacro, né romano, né impero”.

La stessa capacità di prendere le distanze, con spirito critico, da un progetto, mal concepito e peggio realizzato, di euro in salsa tedesca potrebbe oggi sgonfiare i timori dell’avvento di un “Quarto Reich” e aiutarci a ritrovare il senso perduto della nostra storia postbellica. Per cominciare, sarebbe utile capire – à la Voltaire – che nell’euro realizzatosi fin qui non c’è nulla di così grande e definitivo che non meriti di essere ripensato. Anzi, la moneta unica europea è proprio tutta da ridisegnare, dal momento che – a dispetto delle promesse – non è stata sinora “né moneta, né unica, né europea”.

Non è stata unica perché ben dieci paesi dell’Unione Europea su ventisette hanno conservato le proprie monete. Non è stata europea perché anziché favorire l’integrazione politica sta seminando tensioni, che rischiano di produrre profonde e insensate fratture in un’Europa, invece, desiderosa di pace. Non è stata, infine, neppure moneta, se si va oltre la superficie del termine per risalire a un più denso e simbolico livello di significato.

Per un euro giunonico, non draconiano

Strictu sensu, certo, una moneta è “un’unità di conto, un mezzo di scambio e uno strumento di pagamento”. L’euro, da questa fredda e scolastica definizione, non sfugge. Ma in una moneta è in definitiva ancor più decisivo che si riconosca, a livello simbolico, una linfa che scorre a vivificare gli scambi economici e a rinsaldare i tessuti connettivi di una collettività: una currency”, come la chiamò in inglese, tre secoli fa, il filosofo John Locke. E in ciò l’euro sta fallendo, associato com’è con l’arresto cardiaco greco, con la grave ischemia dei paesi mediterranei, e con il più generale ristagno negli standard di vita in buona parte d’Europa.

In quella lingua madre dell’Europa che è il latino, la parola moneta evoca metafore altrettanto calde e vitali. Moneta era un epiteto di Giunone: la dea delle nozze, della fertilità femminile e del parto – spesso raffigurata nell’atto di allattare; divinità protettrice dello stato, signora e patrona del popolo, dispensatrice di buoni consigli e saggi ammonimenti (“moneta” dal latino moneo: ammonire, consigliare, esortare).

Non so se Mario Draghi, nato a Roma, abbia mai riflettuto su questa giunonica promessa di fertilità e nutrimento, di calda protezione e confortante esortazione che si cela nel profondo della parola moneta – nata pur’essa a Roma, oltre duemila anni fa, quando la zecca fu trasferita sul Campidoglio accanto al tempio di Giunone Moneta.

Non so neppure se qualcuno, più o meno scherzosamente, al presidente della Bce abbia mai fatto notare il curioso, casuale, stridente contrasto tra la Giunone Moneta dei latini e quel Dracone, ferreo legislatore ateniese del VII secolo a.C., da cui trae origine il suo cognome. Nel codice draconiano, anche le più piccole infrazioni erano punite con la pena di morte mentre per il debitore di condizione sociale inferiore al creditore non c’era scampo alla schiavitù.

Che accade di “Moneta” se a occuparsene è “Dracone” nel “fortino dei Franchi” (Francoforte)? Scorrerà (“currency”) il latte di Giunone o il sangue di un’algida applicazione di norme crudeli?

Giochi di parole, che però alludono a conflitti irrisolti: tra Nord e Sud; tra il rigore delle regole e il calore del buon senso; tra l’ossessione per il debito e la finanza e la cura per l’economia reale e il lavoro; tra la remota Europa delle tecnostrutture e un progetto di politica solidale che si è andato smarrendo.

Un buon punto da cui ripartire, per i cittadini europei timorosi e confusi, sarebbe capire che questo euro non è l’ultima parola, non è la fine. E’ solo un (costoso) tentativo, mal riuscito: né moneta, né unica, né europea. Voltaire – penso – l’avrebbe definito così.

Bisogna riprovare: ridimensionando il potere dei tecnici, che dai loro “fortini” dispensano un sapere che sa troppo di poco; lasciando perdere le pene draconiane che accendono desideri di rivalsa; affidandosi ai buoni consigli di Giunone, dea protettrice di una politica vitale, feconda, generatrice di civiltà.

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