Dubito che vedremo mai Silvio Berlusconi intervistato da Mr. Paxman. Ed è un peccato. La comunicazione televisiva che piace al nostro premier è fatta di spot e messaggi preregistrati o letti al gobbo. C’è lui che inscena uno spettacolino e i sudditi che ascoltano tranquilli, lasciandosi cullare dalle sue promesse. A volte, per variare, c’è posto per qualche domanda. Ma si deve trattare di assist alla Pirlo, che gli consentano di brillare come centravanti di un’Italia campione del mondo. Ai pochi giornalisti che insistono con questioni vere tocca un trattamento da “comunisti” o da “malati di mente”.
Altrove, nelle democrazie vere, le cose non stanno così. Il giornalismo, anche in televisione, serve a chiedere al potere politico di spiegare i suoi piani e di rendere conto delle sue azioni.
Chiedere una sola volta, e con un eccesso di cortesia, è quasi sempre inutile, perché i politici sanno come dribblare le domande sgradite. Occorre dunque esporre fatti, mettere in luce contraddizioni e avere il coraggio di insistere – non a beneficio di questo o quell’interesse privato, ma del superiore diritto dei cittadini a essere informati.
Un maestro che ho sempre ammirato – fin dai primi giorni della mia scuola di giornalismo a Londra – è Jeremy Paxman, che era allora, come oggi, uno dei conduttori di Newsnight, il prestigioso notiziario di approfondimento del secondo canale della Bbc, in onda tutti i giorni feriali alle 2230.
Paxman si prepara con scrupolo. Nel suo argomentare è svelto e preciso come un laser. Ha una perfetta padronanza del mezzo televisivo. Ma soprattutto è consapevole della forza che, come giornalista, gli viene dall’avere alle spalle un autentico servizio pubblico. Il risultato è che non guarda in faccia a nessuno. Più è potente la figura che ha di fronte, più è fondato il sospetto che nasconda qualcosa, e più è fiero e incessante il suo interrogare – accoppiato a un’ironia da vero inglese.
Un esempio tra i tanti, che ho trovato su YouTube, è la seguente intervista del 2008 a Condoleezza Rice, l’allora potentissimo segretario di Stato americano:
Un altro esempio è ormai un classico del giornalismo televisivo. Si tratta di un faccia a faccia del 1997 con Michael Howard, a quel tempo ministro degli Interni britannico, e poi divenuto leader del partito conservatore. Nell’intervista Paxman arrivò a ripetere ad Howard la stessa domanda per 12 (dodici) volte, come si può apprezzare nel video che segue:
Martedì scorso, alla fine della conferenza internazionale di Londra sulla Libia, Paxman ha intervistato anche il nostro ministro degli Esteri, Franco Frattini. Forse perché non si trattava né di un segretario di Stato americano, né di un combattivo e dialetticamente dotato ministro britannico (ma forse soprattutto perché il tempo a disposizione era poco), Paxman non ha affondato troppo il coltello nella sequela di incongruenze e di evasive risposte abbozzate, con imbarazzo, da Frattini.
I telespettatori britannici hanno potuto comunque capire di quali evanescenti equilibrismi è fatta la politica di un governo guidato, come ha osservato Paxman con obiettività, da un premier che in giro per il mondo è considerato “a laughing stock” (“un personaggio ridicolo”).
Ecco il video, a cui segue una mia traduzione (con qualche abbellimento, dato che l’inglese di Frattini, per quanto superiore, e di molto, a quello di Berlusconi, è pur sempre infarcito di errori).
Paxman introduce l’intervista dicendo che gli italiani hanno utilizzato il vertice di Londra sulla Libia per cercare di vendere la loro idea, e cioè che a Gheddafi sia concesso l’asilo in un qualche paese africano. Per farsi spiegare la posizione del governo italiano, ha incontrato il ministro degli Esteri Franco Frattini.
Frattini: Una cosa è molto chiara, (Gheddafi) se ne deve andare. Nessuno lo considera un interlocutore. Il futuro della Libia sarà costruito senza di lui.
Paxman: Dove deve andare?
F: Non lo sappiamo ancora, spero ci sia un certo numero di stati pronti a ospitarlo, forse sotto gli auspici dell’Unione Africana, che è in grado di esercitare influenza su di lui
P: Quali stati africani?
F: Non sappiamo ancora. Ma più dettagli do, più è improbabile che si possa fare.
P: Perché non gli offrite esilio in Italia, se pensate che debba andare da qualche parte?
F: Lo escludiamo categoricamente.
P: Perché?
F: Perché non vogliamo un dittatore.
P: E allora perché non chiedete che compaia di fronte alla Corte internazionale di giustizia?
F: Penso che dovrebbe, nessuno può garantirgli l’impunità. Certamente non l’Italia, che è tra i fondatori dello statuto della Corte.
P: Quindi non può venire in Italia perché voi lo consegnereste alla Corte?
F: Beh, noi saremmo in ogni caso obbligati, ma tutti i paesi lo sarebbero.
P: Ma allora perché un qualche altro paese dovrebbe prenderselo?
F: eh…(tentenna) è per questo che non abbiamo ancora formulato una proposta.
P: Però lei pensa che qualcun altro dovrebbe prenderlo…
F: Penso di sì.
P: Ma non intende entrare nei dettagli di quale sia il paese che a suo avviso dovrebbe accoglierlo.
F: Eh….Non lo so, perché in merito non c’è ancora una proposta.
P: Ma perché altri paesi dovrebbero essere più rilassati in proposito di quanto non lo sia l’Italia?
F: Beh, perché in altri stati, forse, ci sono delle possibilità. In Italia non c’è più alcuna possibilità, visto quel che è successo. (Gheddafi) ha attaccato l’Italia tre o quattro giorni fa, dicendo che meritiamo una punizione, cose così. Non possiamo accettarlo. Che noi siamo il passato coloniale, cose così.
P: Perché il suo primo ministro ha detto di essere rattristato per Gheddafi?
F: Beh, forse perché ha fatto una distinzione tra gli orribili crimini che ha commesso e un senso di umana pietas che riguarda ogni essere umano. Forse per questo, perché francamente, il mio primo ministro non ha avuto esitazioni nel sostenere completamente le mie posizioni.
P: Sulla Libia, vi sentite imbarazzati in qualche modo del passato italiano?
F: E’ per questo che abbiamo firmato un trattato di amicizia, perché ci sentivamo imbarazzati per i tanti libici uccisi dal fascismo. Questa è una realtà.
P: E i libici se ne ricordano, vero?
F: Certo. Per questo vogliamo che i nostri popoli siano amici e nei miei colloqui con la gente di Bengasi, che sosteniamo con forza dopo aver riaperto il nostro consolato, ho sentito che amano gli italiani perché vogliono collaborare con noi.
P: Le è di aiuto nel suo lavoro a livello internazionale avere un primo ministro che, in giro per il mondo, è visto come un personaggio ridicolo?
F: Beh…gli italiani hanno espresso in molte occasioni il loro giudizio sul mio primo ministro. Ha vinto. Gli italiani sono in grado di scegliere da soli.
P: Ma lei sa qual è la sua reputazione! Con tutte queste feste e cose varie…Non le rende il lavoro più difficile?
F: Forse persone che non lo conoscono davvero e correttamente…
P: Ma lei è mai andato a uno dei suoi party?
F: Beh… Il mio primo ministro è perfettamente in grado di dare da solo le sue spiegazioni, ma c’è gente che non lo conosce a cui forse lui non piace.
P: Grazie, ministro.
F: Molte grazie a lei.
[…] Jeremy Paxman alla Bbc. Ne ho già parlato, su questo blog, in un articolo di un anno e mezzo fa: Un frullato di Frattini per Mr. Paxman. Ci sono, in quell’articolo, un paio di spezzoni di interviste famose, con politici molto […]