Ad appena dieci anni dalla sua entrata in circolazione, è diventato difficile parlare dell’euro. In questi tempi di crisi sarà un’ancora di salvezza o piuttosto una pietra al collo? Ci si dibatte nell’ambiguità.
Quanto sia acuto il disorientamento degli italiani emerge ad esempio dall’ultimo sondaggio della Demos di Ilvo Diamanti, secondo cui un 47% di noi considera la moneta unica una fonte di “complicazioni necessarie” per la costruzione europea, e un altro 39% la ritiene una “complicazione e basta”. L’ingenuo ottimismo di chi vede solo vantaggi si è dimezzato rispetto a un decennio fa ed è condiviso da neppure un italiano su otto.
I motivi per un simile smarrimento su un qualcosa, come una moneta, che si nutre di fiducia ed è fatto per unire sono evidentemente gravi e diversi. Ma il più grave e il più fondamentale, a me pare, ha a che fare con l’eterno problema umano dell’eterogenesi dei fini.
Fu il tedesco Wilhelm Wundt, il padre della psicologia moderna, a elaborare il concetto di Heterogonie der Zwecke quasi un secolo e mezzo fa. L’idea – tradotta alla lettera come “eterogenesi dei fini” o in modo prosaico ma più comprensibile come “conseguenze non volute” – fu feconda. Metteva infatti in chiaro, in un periodo in cui era di moda considerare l’azione umana come finalisticamente determinata, come i fini che la storia umana realizza possono essere ben diversi da quelli che gli uomini inizialmente si propongono.
Due anomalie del progetto euro
Oggi parlare di fini della storia appare anacronistico, quasi un non senso. Viviamo infatti in un’epoca “liquida”, composta di attimi consumati individualmente, senza fini ulteriori e senza storia. Ma nella generale mancanza di visioni del futuro, l’euro ha costituito in questi anni forse l’eccezione più eclatante.
I tratti anomali dell’euro sono stati, anzi, almeno due. Non solo si è trattato di un grande progetto storico perseguito in una fase tutta schiacciata sul “qui e ora”, sul “mordi e fuggi”, sul “prendi i soldi e scappa”: un progetto, insomma, in un’era di non progetti. Ma è stato anche il frutto di una visione di civiltà politica solidale, germinata tra le macerie del secondo dopoguerra, che è alla fine venuto a maturazione in tempi di economicismo competitivo, di individualismo estremo e di indifferenza verso gli altri e verso la politica: un progetto solidale, insomma, in un’era competitiva e non solidale.
Una certa nostalgia di quel passato di grandi visioni politiche e di europeismo cooperativo, in cui l’euro affonda le sue radici, naturalmente rimane. E per chi vi è sensibile, la nostra moneta unica resta parte di un progetto che pare ancora idoneo a tirarci fuori dalle secche della “crisi”: il fondamento per la rinascita di una politica finalizzata al bene comune, la risposta ai processi degenerativi che stanno sempre più polarizzando la società tra ricchi e poveri, tra inclusi ed esclusi, e che hanno tolto ogni scopo al potere se non il potere stesso.
Purtroppo, le nostalgie devono fare i conti con l’irrisolvibile problema dell’Heterogonie der Zwecke, ovvero delle “conseguenze non volute”, che ci spingono in territori sconosciuti, imponendoci quasi a ogni passo di rifare il punto sulla mappa della nostra esistenza, per capire dove siamo, dove vogliamo andare, e con quali mezzi.
A ben vedere, quella che Wundt identificò come una possibilità è in realtà una pratica certezza: i grandi progetti umani, soggetti al caotico rimescolio della storia, danno vita sempre, inesorabilmente, imprevedibilmente a esiti diversi da quelli inizialmente concepiti.
Al Gesù crocifisso fece seguito una Chiesa che promosse con fervore le crociate e le torture dell’Inquisizione; al sogno di libertà dei Padri Pellegrini fece seguito la schiavitù di milioni di neri; alla soppressione del militarismo tedesco dopo la prima guerra mondiale fecero seguito Hitler, l’Olocausto e le devastazioni della seconda guerra mondiale.
E l’euro? Dove ci sta portando l’euro, nato come fondamento di un’Europa politica, unita e solidale?
Disprezzo verso la politica
Due tendenze, soprattutto, mi sembrano aver preso piede al punto da minacciare il sovvertimento delle finalità originali del progetto euro, con sbocchi potenzialmente esiziali per l’intera costruzione europea.
La prima riguarda l’emarginazione e l’umiliazione della politica – o per lo meno della politica come esercizio di democrazia. Nato per fare da battistrada a un’Europa politicamente più unita, l’euro si sta trasformando in un catalizzatore di tensioni e divisioni che i politici europei sono stati sinora impotenti a gestire.
L’effetto è duplice. Da un lato, verso l’alto, c’è una continua “evaporazione” di poteri in direzione di opache tecnostrutture sovranazionali, sempre più rimosse dallo scrutinio democratico, come la Banca Centrale Europea, la Commissione Europea e il Fondo Monetario Internazionale, non a caso ribattezzate con un termine – troika – che rimanda agli oppressivi abissi dell’incontrollato potere staliniano in Unione Sovietica. Dall’altro, verso il basso, c’è una pericolosa “condensazione” di risentimenti popolari verso poteri politici nazionali percepiti sempre più come incapaci, inutili, parassitari.
E’ stato il sociologo e filosofo Zygmunt Bauman a identificare la “separazione del potere dalla politica” come uno degli esiti cruciali dei processi di globalizzazione alla base del “nuovo disordine globale”. La problematica gestione dell’euro, in un fragile e conflittuale contesto istituzionale, intensifica, se possibile, quelle spinte che dall’indifferenza minacciano di far transitare l’opinione pubblica verso il disprezzo nei confronti della politica, o almeno della politica nelle sue espressioni democratiche.
Competizione esclusiva
La seconda, potenzialmente esiziale tendenza, in cui mi pare si vadano coagulando le conseguenze non volute del progetto euro, è di carattere più socio-economico. La storia di questa crisi, esplosa nel 2007 negli Stati Uniti con lo scoppio della “bolla” dei mutui subprime è, solo in apparenza, paradossale. Il suo epicentro – il punto su cui si sono focalizzate le attenzioni della politica, dei media e dell’opinione pubblica – non ha fatto che spostarsi: dagli Usa all’Europa, dai paesi più ricchi e al centro del sistema ai paesi meno ricchi e più periferici, dai “poteri forti” della grande finanza globalizzata ai “ceti deboli” beneficiari di protezioni sul lavoro e di spesa pubblica assistenziale – fattori ora indicati come responsabili dell’inefficienza economica e dell’accumulo di debito pubblico che affosserebbero il sistema.
Il paradosso è solo apparente. In realtà, la storia della crisi è stata assiduamente riscritta a beneficio di chi ne portava la responsabilità, ma aveva anche il potere di cancellare le proprie tracce. La minaccia sistemica posta dalle istituzioni finanziarie “too big to fail” (“troppo grandi per fallire” e quindi grandi abbastanza per tenere la politica sotto scacco) è scomparsa dall’agenda, mentre i debiti pubblici – accumulatisi in buona misura per gli sconquassi causati dall’irresponsabilità delle istituzioni creditizie e di chi doveva regolamentarle – sono stati “addebitati”, surrettiziamente, alle cause meno suscettibili di destabilizzare i grandi poteri globali e più facilmente a portata di intervento delle impotenti politiche statali.
In tutto questo, ha agito come grimaldello ideologico il dogma della “competitività”. E’ un pensiero “non pensato” (doxa) della nostra epoca la nozione secondo cui non ci può essere né crescita né benessere senza competitività, sul piano individuale, collettivo, di sistema. Chi non è competitivo, è un fardello ed è “out”. I debiti pubblici dei paesi periferici sono quel che di più “out” ci possa essere, dal momento che servono a sostenere attività non competitive in paesi non competitivi. La grande finanza internazionale, invece, nonostante abbia distrutto ricchezza in quantità colossali, è competitiva ed è, dunque, “in”.
L’euro, secondo la nuova doxa che ha soppiantato il pensiero dei padri fondatori del progetto europeo, a questo e non ad altro dovrebbe servire: a spingere il vecchio continente a riguadagnare una competitività, che si ritiene perduta ma essenziale per la ripresa.
Inconsistenza del credo neoliberale
Il nesso tra spesa pubblica, debito, (mancata) competitività e (mancata) crescita – mito eziologico caro al credo neoliberale – ha ben poco a che fare con le cause della crisi, né serve a risolverla. D’altra parte, è da trent’anni che le “terapie” neoliberali la fanno da padrone – tra politiche di privatizzazione, deregolamentazione e aggressioni allo stato sociale – in un tenace perseguimento della competitività, che si è finora tradotto in riduzioni della crescita e crescente malessere sociale.
C’è, nella doxa corrente, qualcosa di profondamente sbagliato, come evidenziano, ad esempio, le molte ricerche economiche che dimostrano come – al contrario di quel che si vuol far credere – né un mercato del lavoro più flessibile né una spesa pubblica più contenuta sono fattori rilevanti per la crescita economica.
Attorno al dogma della competizione è però stata riscritta la trama della nostra storia recente, che ha finito per fagocitare anche ogni riflessione sull’euro. Da fondamento di una “casa comune” l’euro è diventato un ring all’interno del quale si combattono aspre lotte competitive, senza guantoni né limiti di peso. Le competizioni sregolate, com’è ovvio, producono in primo luogo una gran massa di perdenti, a cui resta la scelta tra continuare a combattere in condizioni di dolente inferiorità o uscire per sempre di scena.
Una parte dei debiti pubblici accumulatisi nei paesi periferici nel primo decennio di funzionamento dell’euro sono il frutto degli squilibri commerciali venutisi a creare con la Germania, che ha corso per vincere – riuscendoci. Al nastro di partenza era l’economia più efficiente. Ha confermato le aspettative, sfruttando fino in fondo tutti i suoi vantaggi competitivi. Ora che ha trionfato, chiede – per bocca della sua Cancelliera – che i paesi perdenti “facciano i compiti a casa”, ossia si preparino un po’ meglio per la prossima sfida. Con ogni probabilità, per quanti “compiti” facciano, torneranno a perdere. Come non è facile battere Usain Bolt nelle gare di velocità, così non è facile battere la Germania sui competitivi mercati dell’export – tanto più dopo essersi assoggettati ai debilitanti salassi, che i guaritori della troika vanno raccomandando.
La logica della competizione, in tempi di “deregulation”, tende ad allargare il gap tra vincenti e perdenti, tra più adatti e meno adatti al contesto competitivo. I più forti diventano sempre più forti, i più deboli sempre più deboli. Dovrebbe essere evidente che il dogma della “competitività” non può essere il fondamento di alcun tipo di convivenza civile, neppure quella all’interno dell’euro. Per i padri fondatori della costruzione europea era ovvio. Oggi pare non esserlo più.
L’euro e il segreto della crescita
C’è un’importante osservazione da aggiungere. Se c’è un tipo di competizione che non serve né al benessere né alla crescita – ed è la competizione usata per schiacciare chi sta in basso e che può generare solo insicurezza, povertà ed esclusione – c’è un altro tipo di competizione che è invece una molla potente di sviluppo sociale ed economico in un contesto di vigorosa democrazia.
Parlo della competizione regolata imposta ai piani alti delle gerarchie sociali, in tutti gli ambiti dove si formano le élite: la competizione tra i partiti nella lotta politica, la competizione tra grandi corporation nelle contese di mercato, la competizione tra produttori di idee nello spazio della cultura e della comunicazione.
Là dove si coagula il “potere”, i principi della competizione e della contendibilità offrono una garanzia contro il costituirsi di rendite di posizione e il chiudersi delle élite a difesa dei propri privilegi. E’ questa la forma di competizione “inclusiva” e non “esclusiva”, che assicura il dinamismo sociale, il ricambio al potere, la diffusione delle opportunità, e la continua generazione di innovazioni e di crescita economica, come dimostrano esaustivamente Daren Acemoglu e James Robinson in Why Nations Fail (un libro straordinario che rivela quanto sia fuori strada lo sterile dibattito sulla crescita oggi in corso in Europa).
Emarginazione della politica e competizione economica “esclusiva” mi sembrano, dunque, le due nefaste tendenze globali che sono entrate più in sinergia con il progetto euro, sfruttandone le debolezze costitutive e infestandolo come dei virus. Minacciano di portare al completo sovvertimento delle finalità originarie della moneta unica, al punto da farne il campo di una spietata lotta per la sopravvivenza, che nessun cittadino europeo pensava di dover mai più combattere contro altri europei.
Sono sterili questi anni, sembra che la memoria si continui ad accorciare; soprattutto quella dei potenti della terra (la cosidetta elitè), che in realtà è sempre più simile alla cricca del bar sottocasa.
Servono giornalisti come lei con capacita’ di ragionamento indipendente, analisi e sintesi.
Oggi tutto ciò che non è competitivo è out, basta vedere come la società tratta bambini e anziani; essere non produttivi e per questo emarginati… si tratta della nostra memoria e del nostro futuro.
Non mi sarei mai immaginato di vivere a 34 anni in un mondo tanto superficiale.
Buongiorno Dott. Bertoncello,
eccellente articolo, sinceri complimenti!!
Per quanto riguarda il tema della vera competizione, sul quale i mass media ufficiali non spendono nemmeno una parola, segnalo un ottimo testo del Prof. Luigi Zingales:
http://www.lavoce.info/articoli/pagina502.html
Cordiali saluti.
Fab
Dimenticavo per quanto riguarda il discorso che il debito pubblico di certi paesi deve essere ridotto drasticamente, segnalo due interessanti articoli:
1) Si sente spesso dire che bisognerebbe tener conto di tutti i debiti di in un paese. Al debito pubblico andrebbe, infatti, sommato anche quello delle imprese (non finanziarie) e delle famiglie verso il sistema finanziario………..
http://www.centroeinaudi.it/articoli/asset-allocation-economiacentroeinaudiit-100/1618-sfaccettature.html
2) http://www.centroeinaudi.it/articoli/ricerche-economiacentroeinaudiit-99/1200-non-esistono-fatti-ma-solo-interpretazioni.html
( quest’ultimo lo avevo già segnalato!! )
Cordiali saluti.
Fab
Dimenticavo!!
The National Journal reports today that TED is refusing to publish a recent talk from megarich venture capitalist Nick Hanauer, which argued
that rich people actually don’t create jobs, and that cutting their taxes is harmful to the middle class.
http://www.businessinsider.com/nick-hanauer-ted-presentation-about-why-rich-people-arent-job-creators-2012-5?op=1
Apparentemente sembra non avere un grande nesso con quello che lei ha scritto, ma un nesso c’è!!
Cordiali saluti.
Fab